Intervista di Ada Bianchi ad Andrea Molesini

Che cos’è per lei l’umorismo? (nella vita in senso ampio oppure legato a qualche ambito in particolare)

L’umorismo è una facoltà razionale della mente, che ci permette di ridere e sorridere di noi stessi quando il destino ci costringe ad affrontare circostanze opprimenti, più grandi di noi, che ci mettono alla berlina facendoci sentire inadeguati.

In che modo è entrato l’umorismo nella sua narrativa per ragazzi?

Per istinto. E per scelta cosciente. L’umorismo è il condimento ideale dell’azione. Il dramma si articola attraverso l’avventura e, appunto, l’umorismo. In genere sono le comparse, i personaggi secondari, che hanno la funzione di beffeggiare l’eroismo connaturato al ruolo del protagonista. L’umorismo ammacca l’aureola dell’eroe che altrimenti, risplendendo, toglierebbe verità alla messa in scena.

Perché la componente comico-umoristica è così importante nella sua produzione?

È il mio modo di guardare il mondo. Non riesco a non sorridere della mia e dell’altrui pochezza di fronte all’immensità dell’esistere, alla sua struggente bellezza, all’orrore che abita nella storia dell’uomo. La violenza, la viltà, il coraggio, la ricchezza, la malattia, la povertà, la fuga, i pochi che tengono il passo di Termopili, tutto l’immenso spettacolo dell’azione ha bisogno del filtro dell’ironia, del contrappeso dell’umorismo.

Quali tecniche e strategie utilizza per produrre umorismo? Vi sono per lei modelli ispiratori a proposito?

No, niente modelli. C’è la pagina che chiede e impone di essere scritta. Solo questo. È la forza del vuoto che vuole essere cancellata da quella del pieno. La tenebra dell’inizio del tempo viene cancellata dalla voce di Dio che pronuncia la parola “Luce”. Le mot juste di Flaubert è il Fiat lux di Dio. Così il sipario del buio viene strappato dalla voce umana. La parola opportuna è anche un tentativo di fremente, appassionata, inconclusa preghiera. Chi ha fatto questa o quell’azione? io, dice l’uomo. Ma dopo averlo detto, anzi nell’attimo in cui lo dice, viene beffeggiato dalla bizzarria della sorte, ed è dunque costretto a sorridere della propria impotenza nell’ordine supremo del divenire, determinato da forze misteriose, che l’intelletto umano sfida senza speranza di vittoria. C’è sempre un Efialte, perché c’è sempre un Leonida. Così, per quanto l’orda dei predoni sia numerosa, noi ci ostineremo – perché questo è nel DNA della specie – a combattere all’ombra delle frecce persiane, e lo scintillare del sole che balugina fra la nube dei dardi è il soccorso dell’umorismo, ne abbiamo bisogno per reggere l’urto, per dare tempo ad Atene di approntare le difese.

Quale valore e peso attribuisce all’umorismo linguistico nella stesura delle sue opere?

Non lo so. Ma direi molto.

Nel testo “Quando ai veneziani crebbe la coda”, come in altri, le parole si possono vedere, toccare e se ne può avvertire il profumo, soddisfacendo così pressoché tutti i sensi:

E la Befana fece un abracadabra molto grande, rotondo e un poco roboante, ma la scopa non partì. Allora, tra le risa dei due mercanti, la Befana sfoderò un abracadabra piatto, rosa e al profumo di caciotta, e la scopa partì a razzo verso la stella del vespro, che stava accanto alla luna.

Cosa pensa dell’uso delle figure retoriche per produrre humor e che importanza rivestono nella sua produzione? Come crea tali figure in modo che producano un effetto divertente?

Sono un uomo pratico, un artigiano. Non un teorico della creazione letteraria. Quando scrivo vivo in quello che scrivo, in ogni singola parola che seleziono, più o meno consciamente, per dare forma a un’immagine, che è anche, sempre, un’icona sonora le cui cellule restano, in buona parte, a me sconosciute.

Secondo lei l’umorismo è da collocare solo in certe storie oppure esistono zone privilegiate in tutte le storie in cui l’inserimento di questo risulta particolarmente efficace? Se tali zone esistono, quali sono?

L’umorismo non è un oggetto che si mette qui o là, è una brezza che innerva l’aria che si respira. È una forza, non una cosa. Un agire, non uno stato. L’umorismo è cinema, cinesi, tutta la vita ne è impregnata. La vita – diceva Einstein – è come la bicicletta, senza movimento perde l’equilibrio: senza umorismo nessuna storia sta in equilibrio.

Il tipo di umorismo che produce varia dallo scrivere per bambini o per adulti?

No. Direi di no. Gli adulti, come i bambini, se non ridono muoiono, muoiono dentro, e diventano stranieri a se stessi. Sorridere di sé è più adulto. Sorridere degli altri è più bambino. Ma le due cose, in verità, sono una.

Il pirata si grattò il mento rosso di lentiggini e fissò il matto negli occhi, dicendo: “senti un po’ , Gengiscan, quest’ippopota è matta camionata, non ce la voglio sul Tortuga.”

Trippi finse un colpo di tosse.

“che cos’è il Tortuga?”

“il barattolo di sottaceti più veloce dell’oceano” disse Gengiscan, e aggiunse: “Vedrai com’è bella la felicità, Trippi.” (Il Matto e l’Ippopota” pag. 19)

Che tipo di pensieri e reazioni si aspetterebbe da un giovane lettore?

Non lo so. Non fa parte del mestiere aspettarsi qualcosa. Scrivere è un agire e l’orecchio è un dono di Dio, se Dio c’è. La sua eco è sconosciuta, imprevedibile.